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Baccalà: la lunga storia di una prelibatezza gastronomica

Adorabile e appagante nella sua lattiginosa “carnosità”, prelibato e squisito nel suo gusto deciso, che sia fritto a regola d’arte o accompagnato con le patate (arrecanato) con un delizioso pomodorino (con il quale si possono condire linguine o spaghetti) il baccalà regala sempre emozioni al palato, un vero “titillamento emotivo” al gusto e alla tradizione.  In effetti, non è Natale, o per lo meno solo in minima parte, se non fa bella mostra questo famoso e intramontabile piatto, sebbene sia un piatto tipico in tutta Italia. Una storia che riecheggia nelle nostre menti e nei nostri cuori, che si nasconde con “parsimoniosa intraprendenza”, che ci bussa ogni qualvolta ci ritroviamo nei luoghi teatro di antiche rivoluzioni: politiche, artistiche e socioculturali. Masaniello è il simbolo di quegli anni, la chiave di volta per capire i napoletani: “storia di dominati e dominatori” che “un’atavica forza di sopravvivenza ha dato alla città le basi di un’autonomia e di un’indipendenza tanto materiali quanto culturali”.

E qui entra in gioco l’innata forza, la creativa audacia, la giocosa perseveranza del popolo partenopeo, quell’energia stratificata nel corso di invasioni, alleanze, accordi, scontri e incontri da più culture. Per quanto riguarda Napoli, fu importato per la prima volta nella penisola nel periodo delle Repubbliche Marinare grazie ai collegamenti dei nostri mercanti con i mercati del nord e questo era possibile perché questo pesce non si deteriora facilmente. A Napoliiniziò a diffondersi agli inizi del 1500 A quel tempo, il baccalà, assieme allo stoccafisso dal quale si distingue non solo per il processo di lavorazione, era considerato una pietanza dei poveri e nella città partenopea se ne consumava davvero tanto. Non solo per il suo costo contenuto, ma anche perché, nel periodo della Controriforma, La Chiesa aveva proibito il consumo di carne nei giorni comandati, determinando un aumento della domanda di pesce che i soli prodotti ittici locali non riuscivano a soddisfare. Così, per rispondere alla elevata domanda di pesce, si cominciarono a importare grosse quantità di baccalà, alimento molto saziante, economico e facile da conservare.

Lo stoccafisso ed il baccalà sono spesso utilizzati in molte ricette tipiche della tradizione italiana. Alcuni, soprattutto i meno esperti di cucina, tendono a pensare che questi due termini indichino lo stesso alimento, altri invece fanno un po’ fatica a distinguere una variante dall’altra. In effetti si tratta di due prodotti simili, ma non uguali. Lo stoccafisso infatti non viene essiccato, mentre il baccalà viene salato e quindi sottoposto ad un processo di stagionatura. Tanto lo stoccafisso quanto il baccalà però derivano dalla lavorazione di una specie particolarmente pregiata di merluzzo, il gadus morhua, che da secoli popola le acque dei mari del nord. Il merluzzo è uno dei pesci più pescati al mondo.

Come per il maiale, è convinzione che non si butti via nulla: le teste in Africa e soprattutto in Nigeria sono bollite con bacche e peperoncino rosso per arricchire le pietanze. La lingua è considerata una prelibatezza in Norvegia e le uova, salate, affumicate e speziate, sono vendute nei paesi del nord Europa come caviale. Dal fegato di questa specie si ottiene poi il famoso olio di fegato di merluzzo. Dalle altre interiora si ricavano enzimi usati nell’industria farmaceutica. I norvegesi lo chiamavano stokfisk – da cui il nostro stoccafisso – termine che deriva dagli stokk, le vertiginose impalcature di legno sulle quali gli abitanti delle isole Lofoten lo mettono ad essiccare da sempre. L’interpretazione è dubbia e lo era già nel Cinquecento, quel che appare probabile è che il termine tedesco sia una traslazione dal latino, sia che lo si intendesse come pesce dall’aspetto di legno, sia che lo si intendesse come pesce da battere con il bastone.

Non è difficile in effetti notare che baculum sia straordinariamente vicino a baccalà e a tutte le denominazioni di area neo-latina, peccato però che nelle fonti non ci sia traccia diretta (fino ad ora) di un bacularius piscis. Lo stoccafisso è detto anche tørrfisk, «pesce secco», distinto dal merluzzo salato, kleppfisk o klippfisk a seconda dell’area dialettale, letteralmente “pesce roccia” o “scoglio”, dal luogo dove veniva posto affinché fossero scolate le secrezioni della salatura. Ma non è facile orientarsi con precisione, poiché spesso i vocabolari non distinguono chiaramente tra un pesce e l’altro, data la loro affinità4 . Dobbiamo inoltre ricordare che in varie località occitane – e specie nelle Valli dei fiumi Lot e Dourdou – il piatto tipico (con le patate) è l’estofì o estofinado, che può essere lo stoccafisso, ma anche l’eglefino o asinello; a Nizza il nome della specialità, che presenta alcune varianti, è estocafic. La coincidenza tra il nome del pesce nella versione fresca e in quella lavorata dipende in primo luogo dal fatto che in taluni mercati, come quelli iberici, l’alimento giungeva da lontano e affinché non si deteriorasse aveva bisogno di essere conservato sotto sale o totalmente disidratato. Inoltre, la poca precisione che si riscontra in alcuni dizionari e pure in testi storici e antropologici, oltre che nello stesso parlato, deriva sia dalle modifiche che le denominazioni hanno subito in alcune lingue nel corso del tempo, sia dalla somiglianza e dall’affinità tra molti pesci. Le etimologie ci conducono principalmente a basi latine e germaniche.

Per la serie merl- sono percorse due strade: da MĔRULA “merlo di mare” attraverso un diminutivo e con diffusione dal provenzale merlus; oppure da un composto MĂRIS LŪCIU(M), “luccio di mare”, per la somiglianza con il pesce d’acqua dolce, e ciò spiegherebbe bene la forma catalana. Rientrerebbe qui anche il francese morue, se è da una voce celtica MOR “mare” intrecciatasi con gli esiti or ora esaminati. Stoccafisso deriva dall’antico olandese stockvisch, cioè “bastone” e “pesce”, quindi “pesce-bastone” o “pesce essiccato su un bastone”.

I primi a farne uso e commercio furono i vichinghi, gli antichi abitanti della Scandinavia, che avevano trasformato questo pesce a lunga conservazione in una preziosa scorta di cibo per le loro traversate oceani che, ma anche in una sorta di moneta di scambio con tedeschi, olandesi, britannici e altri popoli dell’Europa del Nord. Baccalà contro grano, birra e tessuti. Dato che a queste latitudini, complici le temperature particolarmente rigide, non sempre in passato era facile procacciarsi il cibo, la popolazione tendeva a fare scorta degli alimenti reperibili durante determinati periodi dell’anno ed a conservarli per tempi molto lunghi in modo che potessero resistere senza deteriorarsi. Da qui l’esigenza di immagazzinare, tra le tante cose, anche il merluzzo. Si procedeva quindi lasciando essiccare il pesce per circa 90 giorni. Il processo avveniva all’aperto, sfruttando l’aria fredda del nord. Per le popolazioni autoctone si trattava di una pratica abituale, di nulla di straordinario insomma. Le tecniche che le popolazioni del nord hanno nei secoli impiegato per conservare il merluzzo, trasformandolo come abbiamo visto in baccalà o in stoccafisso, derivano con buona probabilità da pratiche già in uso per la stagionatura della carne di balena. Del resto, almeno secondo la tradizione, i pescatori che arpionarono per primi questi pesci azzurri effettivamente erano usciti in mare per andare a caccia del gigantesco cetaceo. Il caso volle però che l’acqua in quel frangente più che di balene pullulasse di merluzzi e la ciurma, per non compiere un viaggio a vuoto, decise di pescarli comunque. Ne imbarcò una quantità notevole ed ebbe quindi la necessità di assicurarsi che il pescato non andasse a male. Da qui l’idea di procedere con le stesse tecniche di salatura e stagionatura normalmente utilizzate per conservare la carne di balena. Una curiosità davvero impensabile per quanto riguarda il baccalà è che nei tempi antichi i marinai non esitavano ad utilizzarlo quasi come fosse un barometro. In molti erano soliti infatti appenderlo ad un albero della nave e, non appena il sale iniziava a sciogliersi, intuire l’arrivo di un cambiamento delle condizioni climatiche. A quanto pare l’accadimento si verificava sempre a seguito di un incremento dell’umidità cosa che ha come ovvia conseguenza l’imminente arrivo di una tempesta.

Ma la fortuna mediterranea del baccalà inizia nel 1432 quando il nobile veneziano Piero Querini, capitano da mar della Serenissima Repubblica, naufraga con la sua nave in acque norvegesi. Querini, dopo aver affrontato diverse tempeste, si trovò con una nave disalberata in balia delle correnti, giunto ormai al largo dell’Irlanda, decise di dividere l’equipaggio su due scialuppe di salvataggio. Della prima scialuppa (quella più piccola) non si ebbe alcuna notizia, mentre la lancia più grande riuscì dopo un mese ad approdare su un’isola deserta, quella di Sandøy vicina a Røst, attuale Norvegia. Nell’approdare sull’isola, Querini arrivò stremato, con solo 15 marinai superstiti dei 67 iniziali, senza viveri, né bevande. L’isola che era deserta, era una sorta di pascolo per le bestie della popolazione locale. I pastori norvegesi caricavano le mandrie sulle barche e le trasportavano di isola in isola per poter trovare il miglior nutrimento per le loro bestie. In uno di questi trasferimenti alcuni capi di bestiame erano andati persi e il loro proprietario non si ricordava in quale isola li potesse aver lasciati.

Fortemente impressionato da quelle imponenti cascate di pesce steso ad asciugare al vento, Querini decanta davanti al Consiglio dei Dieci le virtù di quel cibo economico e gustoso. È il primo passo verso quel matrimonio tra l’Italia e il baccalà che avrà la sua consacrazione nel secolo successivo. Quando la Chiesa, durante il Concilio di Trento, stabilisce, con il decreto del 4 dicembre 1563, una disciplina rigorosa dei digiuni proclamando giorni di astinenza dalle carni il mercoledì, il venerdì, la Quaresima e tutte le feste comandate. È l’inizio dell’irresistibile ascesa del merluzzo secco, favorita anche da un promoter d’eccezione come l’arcivescovo Olaf Mansoon, uno dei protagonisti del Concilio. Con una tempestività che ha qualcosa di sospetto, l’alto prelato norvegese scrive per l’occasione un libro sulla sua terra dedicando molte pagine alle lodi del pesce bastone, descritto come il cibo ideale per allietare i giorni di vigilia conciliando così le ragioni dell’anima e quelle del palato. Il libro giusto al momento giusto. 

Da allora il baccalà diventa per antonomasia il mangiare di magro, ma anche il cibo dei poveri, di quelli che sono lontani dal mare e non possono permettersi di sostituire la carne con pesce fresco. Simbolo di miseria, di privazione, di secchezza, al punto che la Quaresima viene spesso raffigurata come una vecchia magrissima che brandisce minacciosamente uno stoccafisso. Il prodotto in Italia è accolto con entusiasmo per il basso costo e per l’alto grado di nutrizione, non disprezzabile poi la possibilità di trasportarlo con facilità nella cambusa delle navi. Le regioni che più ne saranno gastronomicamente coinvolte, oltre al Veneto, sono la Liguria, la Toscana, il Lazio, la Campania, la Calabria e la Sicilia.  La pesca del merluzzo, la sua lavorazione e la successiva commercializzazione – già ben consolidate nell’età medievale – si infittirono dopo la scoperta dei banchi di Terranova e il loro sfruttamento anche da parte di operatori di questa regione, spesso in rapporto con colleghi baschi e guasconi. Divenne poi un emporio per il rifornimento di vari luoghi, tra cui diverse terre d’Italia, tanto che in alcuni dialetti del Nord è rimasto il termine bertagnì, bertagnin cioè “bretone” per designare o il baccalà o lo stoccafisso. In particolare, citiamo i riscontri ottocenteschi della Liguria, con il significato di “specie di baccalà tenero, proveniente dalla Bretagna”, di Reggio Emilia e di Bergamo, dove si faceva la differenza tra il bacalà secco e il bertagnì salato. Da quanto risulta finora, le attestazioni più antiche della parola risalgono al Settecento e comprendono anche parti del Veneto. Occorreranno secoli di quarantena prima che il baccalà arrivi sulle tavole dei ricchi.

Fino alla metà del Novecento il Gadus deve rassegnarsi al ruolo di branzino dei poveri, come lo chiamavano a Genova. Sempre associato ad ingredienti altrettanto poveri come polenta, patate, acciughe, pane raffermo. Esempio edificante di una cucina parsimoniosa: pochi ingredienti tanta fantasia. Così l’umile talento di osti e massaie costretti a far quadrare il bilancio ha creato autentici monumenti del gusto, come il baccalà alla vicentina, alla napoletana, quello accomodato alla genovese.

Oggi che l’obbligo religioso del digiuno si è trasformato in decalogo laico del mangiare ipocalorico, il baccalà celebra il suo trionfo conquistando le mense più altolocate. Appena pescati i pesci vengono eviscerati e lavati, quindi portati a terra dove prosegue l’operazione di pulitura, selezionati in base al peso e infine quelli destinati a stoccafisso vengono legati, due alla volta, e appesi alle rastrelliere. Qui rimangono circa 3 mesi esposti all’aria nordica dove perdono il 70% della loro umidità a questo punto un selezionatore li separa secondo la qualità e legati e infilati in tele di iuta vengono spediti in tutto il mondo. Le nazioni che ne consumano di più sono il Portogalloel’Italia, la più attenta anche alla qualità del pescato.  Dall’altra parte quelli destinati a baccalàvengono aperti a farfalla, salati continuamente per tre settimane e poi lasciati asciugare. Lo stoccafisso è disponibile solo tre mesi l’anno, il baccalà, invece, tutto l’anno.

Le qualità migliori del merluzzo sono il cosiddetto“ragno”, marchiato a fuoco sul lato, e ilmerluzzo skrei chiamato dai norvegesi “Valentine fish” un merluzzo selvaggio di alta qualità. Per il baccalà il migliore proviene dal Quebèc, il cosiddetto Gaspè San Giovanni, salato e asciugato al sole.

Scritto da Antonio Grosso, storico e ricercatore gastronomico

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