Mario Donnabella: una vita alla scoperta dei segreti della terra
Ad ogni tornante la natura mi si offre nelle sue vesti migliori: uno specchio di mare color cobalto che si diverte a mutarsi nelle sfumature dell’azzurro, per poi diventare verde come le colline che si guardano nello specchio del golfo di Policastro.
Già le colline…mi vengono incontro avvolgendomi nel verde della vegetazione chiazzata qua e là dal bruno dell’arsura di una tiepida mattina di fine estate.
Ho appuntamento con Mario Donnabella, il viticoltore di vini naturali, di cui mi ha parlato un suo conterraneo e collega viticoltore.
Le parole usate per descrivermelo mi hanno incuriosito, a mano a mano che scollino ho la sensazione che non sarà un’intervista banale, scontata, una visita ad una cantina come tante altre.
Arrivo alle 11 di una mattina con un cielo dal sole pallido che si fa spazio tra le nuvole.
Mario, un uomo alto, dal fisico asciutto, con un viso signorile ed il pizzetto da intellettuale del Risorgimento, non ha nulla dell’immaginario del contadino già nell’aspetto.
Mi accoglie all’ingresso della sua tenuta, iniziando a parlarmi della sua vita, senza nemmeno aspettare le mie domande, perché per capire il presente bisogna partire dal passato…
Mi racconta dei suoi studi all’istituto agrario di Salerno, del suo ritorno a casa all’azienda agricola di famiglia, dei suoi scontri con il padre contadino che coltiva vigna, olivi come i suoi avi e che se ho mandato un figlio a studiare non vuol dire che può fare quel che vuole in campagna, e poi che idea balzana fare il vivaista di alberi boschivi…
La volontà e la caparbietà della gioventù lo conducono alla realizzazione del suo primo sogno, un piccolo vivaio che Mario porta avanti per diversi anni, che diventa sempre più grande e remunerativo.
Ma quando la vita fa il suo primo giro di boa e ci si accorge che somigliamo sempre di più ai nostri genitori si sente un’esigenza mai avvertita nel turbinio della gioventù: un ritorno alle radici.
E per Mario le radici sono in quei terreni abbandonati da quando il padre, per lo scorrere degli anni, non ha più potuto curare i suoi vigneti, che sono andati perduti.
Da quel giorno il suo obiettivo è stato ripristinare la vecchia vigna e gli antichi vitigni.
Il percorso tra le vigne: vitigni ritrovati, un ritorno alle radici
Mi mostra con orgoglio le vigne che circondano il vivaio, quasi a proteggerlo, come un padre accarezza il figlio ritrovato.
Mario mi racconta del suo peregrinare tra i contadini della zona che avevano conservato i vecchi vitigni per tradizione, senza sapere di essere custodi di varietà ormai in estinzione.
Mario riporta in produzione l’Aglianicone, un vitigno che, mi spiega, produce un vino più morbido dell’aglianico, dalla buccia spessa, dal tannino abbondante, però non verde, quindi meno astringente in bocca dell’aglianico tradizionale.
Poi mi conduce tra i vitigni della Santa Sofia, l’altro fiore all’occhiello delle sue varietà ritrovate, che produce un bianco, dal sapore astringente, che lui usa in uvaggio insieme al Fiano, al 50%, per renderlo più morbido.
Camminando mi mostra un terzo vitigno, il Mangiaguerra, a bacca rossa, a cui tiene molto, che non può vinificare, in quanto non è iscritto nel registro delle varietà. Gli chiedo perché ci tenga così tanto a questo vitigno e lui mi spiega che è una varietà storica da lui ritrovata, ormai perduta, che lo ha vinificato ed afferma che ne ha ricavato un rosso molto apprezzato da vari degustatori.
È un vino meno tannico dell’Aglianicone, non certamente un Sangiovese o un Merlot, ma con la sua trama tannica, strutturato come tutti i vini della zona.
Il nostro percorso tra le vigne mi porta alla zona in cui coltiva il Fiano e ad una parte meno estesa coltivata ad Aglianico.
Già la zona…dunque la terra dove il vitigno cresce e si nutre, facendo in modo che uno stesso vitigno dia vini dal sapore diverso, perché l’Aglianicone o il Fiano o la Santa Sofia, prosegue Mario, si possono coltivare ovunque, ma è il terreno con la sua tipicità a rendere diversi i vini.
La terra dei suoi vini, mi dice, è prevalentemente arenaria, un terreno argilloso misto ad arenaria.
Mi spiega che ha un sistema di allevamento che va verso l’alto, ad Alberello con potatura a sperone, ma non a cordone speronato.
Siamo nella vigna dell’Aglianicone, di cui sono stati trovati 3 cloni, dei tre lui ha il meno produttivo, ma, afferma convinto, a tutto vantaggio del prodotto finale. L’Aglianicone ha un grappolo molto spargolo con acinellatura, che riesce a giungere a maturazione senza dare problemi.
Mi dice che l’Aglianicone produce un vino molto strutturato, che arriva a toccare i 15 gradi…forse un po’ troppo strutturato mi viene da pensare…
Degustazione degli acini
Passiamo alla degustazione dell’acino da cui si ricava la valutazione della maturazione tecnologica e della maturazione fenolica.
Facciamo la degustazione seguendo le varie fasi che vanno dall’assunzione del succo, che ci dà il grado di maturazione tecnologica con la percentuale di zuccheri ed acidi, al trattenimento in bocca dei vinaccioli, che vengono esaminati per assicurarsi che siano di un colore nocciola e duri per la giusta maturazione, infine si mastica la buccia per valutare la maturazione fenolica.
Mi fa notare che l’Aglianicone nello specifico ha una buccia spessa, che produce un tannino abbondante, ma non verde, che dona morbidezza al vino.
Mario mi fa notare che quest’anno, a causa della siccità, la maturazione fenolica, cioè della buccia, è un po’ in ritardo rispetto alla maturazione tecnologica: non piove da più di quattro mesi, ma mancano ancora una decina di giorni alla vendemmia e, guardando speranzoso il cielo, pochi millimetri di acqua sarebbero sufficienti per la maturazione fenolica.
Mario, volgendo uno sguardo grato a terra, mi indica le radici del vitigno, che per fortuna sanno pescare nella profondità della terra per prendersi l’acqua che il cielo non dà.
Passiamo ad assaggiare gli acini della Santa Sofia, il vitigno di uva bianca.
Mi accorgo subito della differenza: il suo grappolo è grosso, mi conferma che è molto produttiva.
Anche questo vitigno è allevato ad alberello, non a Guyot. Facendo la degustazione capisco che la maturazione è molto più avanzata, perché la buccia si mastica facilmente. Mario mi dice che per la sua produzione di vini naturali è importante anche la maturazione fenolica, in quanto lui utilizza anche le bucce e i vinaccioli, facendo macerare il vino, invece nella lavorazione tradizionale dei bianchi vengono eliminati immediatamente i vinaccioli e le bucce.
La Santa Sofia ha la caratteristica di essere astringente, pertanto la lascia poco con la buccia, non potendo aspettare troppo per la maturazione, in quanto perderebbe in acidità. Il vino di quest’anno avrà una percentuale maggiore di Fiano a causa della siccità.
Passiamo in un’altra zona della tenuta, dove il terreno cambia, diventando argilloso e sabbioso con dello scheletro. Il terreno, molto caldo, dona una particolare connotazione ai vini rossi, arricchendoli in tannini ed antociani.
Mi dice che è in procinto di fare una zonazione, ci fermiamo in un’altra vigna di Aglianicone, dove facciamo un’altra degustazione dell’acino.
Gli faccio notare che sento una sensazione meno invasiva rispetto all’altra vigna, è cambiato un po’ il terreno, l’esposizione per rendere questo acino già differente. Mario mi dice che è una questione di maturazione, che questa è più avanzata.
Gli interventi in vigna
Dopo le degustazioni in vigna Mario mi spiega gli interventi che fa per poter coltivare la vigna in modo più naturale possibile.
Dall’esperienza nel corso degli anni ha notato che la gestione degli interventi in vigna nasce sin dalle modalità del portainnesto.
Mi spiega che l’azoto, così importante per la crescita delle piante, si sviluppa grazie all’attività dei batteri che si trovano nel terreno, a patto che il terreno non venga disturbato dalle lavorazioni.
Mario mi declina il senso che egli dà alla definizione di agricoltura naturale: lasciar lavorare la terra, limitando al massimo l’intervento umano.
Mi spiega con un viso divenuto più serio che nelle sue vigne non c’è nessun intervento da parte sua ad eccezione di una semplice falciatura dell’erba dopo la fase di invaiatura.
Non effettua nemmeno sovesci, che di solito vengono utilizzati per rifertilizzare il terreno.
Il suo intervento si limita al falcio dell’erba con un trattorino leggero, quasi a volermi far capire che non vuole ferire la terra.
Sotto il filare interviene a mano, facendo la potatura verde e non facendo cimatura, lasciando così la chioma intatta.
Quest’anno, prosegue, ha fatto solo due trattamenti con il rame e tre con lo zolfo (solo quando c’era l’uva sulle piante), ma si pente di aver usato il rame, affermando che è stato tratto in inganno dalla variabilità climatica del mese di giugno e che, dopo un maggio bellissimo in cui non aveva fatto alcun trattamento, ha avuto paura per la fioritura ormai prossima e, temendo di compromettere un anno di lavoro, ha usato il rame.
Le malattie della zona
Mi illustra le malattie a cui sono più soggette le vigne di questa zona.
Mi dice che c’è una forte presenza di Oidio, in quanto siamo in collina…c’è ventilazione e quindi l’uva asciutta viene attaccata facilmente. Dà un pochino di zolfo dopo l’allegagione, uno a giugno e due a luglio, ma ha purtroppo constatato che l’oidio è presente tutti gli anni, compromettendo la qualità dell’uva.
La Peronospora è diversa perché attacca il grappolo, quindi si perde solo il grappolo attaccato, ma il grappolo non attaccato resta sano. Invece l’oidio colpisce gli acini di ogni grappolo ed è quindi più complesso da debellare.
Mi mostra con un viso che gli si illumina d’improvviso, come chi ha fatto una grande scoperta, una pianta, l’Imula Viscosa, da cui sta iniziando a produrre dei fermentati, che pare abbiano delle proprietà antifungine confermate anche da un ricercatore dell’Università di Napoli. Mi invita a toccarne le foglie, che appaiono appiccicose e dal profumo molto intenso.
La sua speranza è che i fermentati di questa piantina possano sostituire i trattamenti con lo zolfo e il rame.
Il vivaio
Mi mostra la sua prima passione, la Silva plantarium, il bosco di piante che ha riprodotto.
In un ettaro di terra produce tutte le piante della macchia mediterranea: corbezzolo, mirto, quercia, ulivi…
Il suo bosco coltivato si incontra con il bosco naturale, che poteva essere disboscato e utilizzato per il suo vivaio, facendo dei gradoni, ma, afferma con orgoglio, che non lo ha fatto, perché la sua filosofia, anche da vivaista, non cambia: non essere invasivo nei confronti della terra.
Fermentato di Imula Viscosa
Il fermentato dell’Imula Viscosa gli serve per fare tutto, su di essa ha riposto molte speranze e qualche certezza già sperimentata.
Mi mostra il contenitore del fermentato di Imula Viscosa: appena Mario sposta il coperchio si diffonde un forte profumo di oliva.
Mario mi spiega i componenti del fermentato, dicendomi che, oltre all’Imula Viscosa, mette anche un po’ di ortica, spiegandomi che il risultato è praticamente come l’aceto del passato, che questo fermentato produce la colonia batterica dell’aceto di una volta. Il fermentato, che tecnicamente si chiama “Fervida”, utilizza una tecnica di fermentazione sperimentata in Tailandia.
Mi spiega la versatilità del prodotto che, in piccole quantità, può essere utilizzato per uso domestico: infatti egli lo usa come aceto, come sostituto dello yogurt, essendo ricco di fermenti lattici.
Mario si dilunga in un elogio degli effetti benefici dell’aceto che si faceva una volta in casa, perché era pieno di fermenti lattici, acetiti utili per l’intestino e che usando questo prodotto, ormai da circa sette, otto anni, ha ridotto le malattie influenzali, il mal di gola, le faringiti, che lui cura con il fermentato di Imula Viscosa, a cui aggiunge limone, propoli, foglie di ulivo.
Afferma con convinzione che lui usa il fermentato anche per sciacquarsi le mani, come disinfettante al posto dell’amuchina, che questo prodotto è diverso rispetto ai preparati sterilizzanti come l’acqua ossigenata o l’amuchina che ammazzano tutto, lasciando indifesa l’epidermide, e che quindi, se arriva un virus, ha campo libero, perché non ha antagonisti, invece il suo prodotto, siccome è ricco di batteri e fermenti che sono vivi, disinfetta a causa del ph molto basso, allo stesso tempo l’epidermide schermata da questi microrganismi buoni può essere protetta dall’attacco dei microrganismi cattivi.
Mario mi confessa le fonti della sua condotta di vita, dei metodi di coltivazione e delle sue ricerche: Masanobu Fukuoka per l’agricoltura naturale.
Visita alla cantina: il viaggio nel mondo di Mario si avvia alla conclusione
Entriamo finalmente in cantina, il tempio in cui il grappolo diventa vino.
Mario mi racconta che l’edificio, adibito a cantina, una volta era la villa di caccia appartenuta ad una famiglia nobile del Cilento, che possedeva un latifondo molto grande, che si estendeva da Caselle in Pittari fino a Marina di Camerota.
Scendiamo in cantina dove vedo dei silos in acciaio.
Mario previene la mia domanda, dicendomi che i silos d’acciaio a lui servono per mantenere bassa la temperatura delle fermentazioni, che forse qualcuno, appena vede accostati i termini di vini naturali e acciaio, potrebbe storcere il naso, che neanche lui è molto felice di usarli, ma sono pratici e occupano meno spazio e lui di spazio ne ha poco e poi un minimo di modernità serve, ad esempio adesso ha in fermentazione un po’ di bianco, che tiene a 20/21 gradi, perché lì ci sono esseri viventi come noi che non sopportano temperature estreme.
Quindi i silos permette che i fermenti non superino la temperatura di 26 gradi. Per lui un minimo di controllo ci vuole, se non si vogliono avere dei fastidiosi difetti finali nel vino.
Mi spiega che, finita la fermentazione, si fa qualche travaso e poi il preimbottigliamento.
Il viso di Mario si illumina quando mi parla dell’affinamento del vino.
Mi spiega che il 90% dell’affinamento della sua produzione avviene nelle giare di terracotta e solo una piccola frazione in botte, che ha intenzione di abbandonare definitivamente, appena potrà acquistare altre giare, perché per lui la terracotta è il materiale ideale per l’affinamento del vino, ma soprattutto è un materiale nostro… ad esempio queste anfore di terracotta le fanno in Toscana, mentre i legni non sono Italiani, la terracotta ha anche un costo energetico più basso, poi il vino affinato in anfora (per chi non cerca i sentori tipici del legno) viene bene, perché è neutro, quindi non modifica il vino, riuscendo a farci sentire il sapore della terra che lo ha nutrito.
Mi ricorda che la pratica di affinare il vino nella terracotta era già in uso presso gli antichi Romani, che la esportarono in Georgia, dove hanno conservato questa antica e salutare pratica, mentre in Italia siamo passati alle botti di legno.
Mi saluta con un viso disteso da studente che ha terminato l’esame, dicendomi che al momento la Silva Plantarium produce in totale 2500/3000 bottiglie all’anno, non sono tante, ma lui è contento, perché è in armonia con la Madre Terra.
Se produzione naturale vuol dire lasciar lavorare la natura, cercando di aiutarla quando ha bisogno di piccoli correttivi, allora la produzione dei vini di Mario Donnabella può definirsi naturale.
Di sicuro è un’ottima dimostrazione che l’integrazione e la collaborazione uomo-natura è possibile.
I vini da noi degustati
Kamaraton 2018 e 2019 (Uve Fiano e Santa Sofia in uvaggio)
Buxento 2017 e 2018 (Aglianicone)